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L'ultima Prova Floriana Perrone ... 07/11/2014



L’ULTIMA PROVA

La nebbia tormentava l’incantevole voce notturna, tentando di farmi paura per impedirmi di raggiungere quella bianca luce, meravigliosa, una lama di luna all’improvviso illuminò la mia vista togliendo dolcemente il velo dai miei occhi, scorsi allora tre donne, le quali mi guardavano quasi attendendo che mi svegliassi.
Erano vecchie, indossavano una semplice tunica bianca, tessevano un lungo filo grigio, chiesi loro chi fossero e dove mi trovassi.
Rispose una di loro, la più anziana: “ Io sono Cloto e loro sono Lachesi e Atropo, tu sei Cassandra, noi ti conosciamo già”.
Mi resi conto che riuscivamo a comunicare con il solo pensiero, mi lessero dentro: “ Si, noi siamo le Moire, le Parche o le Fatae, quelle che tu hai studiato a scuola, no, non siamo un mito”, “allora voi, se ben ricordo…”, “ si, io Cloto, filo il filo della vita di voi umani, Lachesi dispensa i destini stabilendone anche la durata. Atropo, l'inesorabile, taglia al momento stabilito il filo della vita, le nostre decisioni sono immutabili, nessuno le può cambiare”.
Mi accorsi, solo allora, che la nebbia era scomparsa, sostituita da un sole accecante, che tuttavia non bruciava, non provavo né freddo, né caldo, nessun dolore, nessuna emozione, il mio cuore era vuoto come era vuota la mia mente.
Chiesi loro chi fossi, dove mi trovassi, ma senza affanno o particolare curiosità, chiesi perché non ricordassi niente.
“Prima di essere ammessa ad Utopia, questo è il nome del posto in cui ti trovi, hai bevuto l’acqua del fiume Lete, quest’acqua ha il magico potere di farti perdere la memoria, almeno sino a quando lo decidiamo noi”. “Perché mi trovo qui, sono forse morta, cosa mi attende?”.
“Noi garantiamo l'ordine dell'universo, la giustizia umana non esiste, noi provvediamo a ripristinare quella divina”.
Io, però, ancora non comprendevo il motivo per il quale mi trovassi in quello strano, splendido posto, provai a darmi un pizzicotto, forse era solo un sogno, piuttosto veritiero, ma pur sempre un sogno, non avvertii dolore, le mie membra erano del tutto insensibili.
Cloto, continuando a filare, mi invitò con il pensiero a guardare verso una montagna, apparsa dal nulla, da rossiccia, si trasformò velocemente in gialla, poi fu solo uno schermo bianco.
Vidi immagini che si susseguivano, cammei senza tempo, in quel posto antico il tempo sembrava non esistere.
Scorsi una giovane donna picchiata da un uomo molto più grande di lei, la sovrastava con la sua statura, alternava schiaffi a pugni e calci, la donna, accucciata per terra, lo pregava di smettere, invano.
“Non li riconosci, figlia, vero? Lui è tuo padre, lei è tua madre, lui è il diavolo”.
Frammenti di tempo, come un frullatore impazzito, apparivano e scomparivano da quel grande schermo, vidi una bambina dalle lunghe trecce bionde e grandi occhi castani, seduta al buio di una scala lunga e stretta, piangeva silenziosa.
“Lo so, intervenne questa volta Lachesi, non ti riconosci, quella bambina sei tu, sei da sola e piangi, hai appena visto tuo nonno, a te sembrava dormisse in una culla adorna di fiori, lo hai chiamato, hai cercato di svegliarlo ma lui continuava a dormire.
Nessuno, neanche tua madre, si è preoccupato di spiegarti cos’e la morte, lo hai dovuto comprendere da sola”.
Ancora immagini, poi vidi una ragazza, un po’ paffutella, bionda con i capelli corti, dagli occhi molto tristi, l’uomo che ora sapeva essere suo padre, la stava picchiando, come aveva fatto con la donna, quella ragazza aveva le braccia e le gambe piene di lividi, nonostante il dolore e l’amarezza, non piangeva, si rannicchiava su se stessa per difendersi da quella furia.
Vidi la stessa ragazza, divenuta più grande, uscire da una scuola, si guardava attorno, forse delusa, comunque sconfitta.
“Perché, mi chiedo, cosa le è accaduto?”.
“Sei tu, il giorno in cui andasti a vedere i risultati dell’esame di maturità, sei delusa perché nessuno, neanche quel giorno, ti disse un brava o ti diede un bacio, ti abbracciò forte, sì, ti eri diplomata con il massimo dei voti, ma quel giorno né tuo padre, né tua madre, né tuo fratello ti regalarono almeno un fiore di campo”.
“Non voglio più vedere niente, pensai, anche se non provo dolore, se questa è stata la mia vita…il mio pensiero fu interrotto da Cloto: “No, tu devi ricordare, hai un compito da portare a termine ed è necessario tutto ciò”, “perché mi avete fatto bere l’acqua del fiume per dimenticare, se ora devo ricordare, non capisco”, “capirai a tempo debito”, intervenne scorbutica la donna che sino ad allora era rimasta in silenzio.
La montagna divenne ancora uno schermo bianco: vidi una donna, molto magra, carina, sempre con gli occhi tristi, era ovvio, quel giorno era quello della laurea e palesemente anche allora lei era da sola, nessuno della sua famiglia era andato a festeggiare il suo successo.
Poi la guardai in una grande città, spaesata, impaurita ma avvertivo il coraggio enorme di quella piccola donna, la vidi che serviva ai tavoli di un ristorante, che puliva gli uffici di una qualche azienda, la vidi scaricare camion, man mano la vedevo sempre più serena, i suoi occhi erano divenuti profondi e dolcissimi.
Poi… sempre più donna, finalmente seduta dietro una scrivania, le piaceva il lavoro che svolgeva, aveva un uomo accanto a sé, sembrava buono, non era suo padre, né suo fratello.
Chiesi alle Parche che fine avesse fatto la mia famiglia: “figlia, quella che tu chiami la tua famiglia ecco che fine ha fatto”, sullo schermo c’era l’immagine una vecchia, stava agonizzando in un letto lercio, la stanza sembrava un garage, sentivo le urla della donna: “figlio mio, perché non mi aiuti, perché mi lasci morire qui da sola, ti ho fatto per la mia vecchiaia”, pensai: “chi è quella vecchina che si dispera, chi è quel figlio disgraziato che la sta lasciando morire in quel modo, non ha cuore”, “figlia, mi spiegò Cloto, quella vecchia malata, sola, abbandonata è tua nonna, paterna”.
La risposta, inaspettata, mi lasciò stordita, confusa, prendevo coscienza di quale mostro fosse mio padre.
Dissi: “basta, cosa volete da me, spiegatemi”.
In quel mentre si materializzò un’altra donna, giovane, bella, imponente, impugnava una spada d’oro a forma di croce, mi disse: “io sono Nemesi, tutrice e conservatrice dell'ordine e dell'equilibrio dell'universo. Tutto ciò che nel destino delle cose e degli uomini sembra oltrepassare una giusta misura, dando luogo a stridenti contrasti, a disarmonici squilibri, suscita in me lo sdegno. Così – proseguì - mi metto subito all'opera per ristabilire le giuste proporzioni e il turbato equilibrio, né desisto dalla mia opera finché non ho riportato negli avvenimenti e nelle sorti umane l'ordine temporaneamente sconvolto”.
Proseguì Cloto: “la potenza e la ricchezza eccessive, la troppa felicità e la troppa bellezza e una costante fortuna richiamavano l'attenzione e l'azione di Nemesi, non meno che le eccessive disgrazie, la troppa miseria e la troppa infelicità”.
“Ma io cosa devo fare? Se la mia vita è stata così disgraziata allora vuol dire…”, “sì, terminò il mio pensiero Lachesi, nella tua precedente vita sei stata malvagia, come la maggior parte degli esseri umani inconsapevoli del fatto che il tempo passa veloce come un puledro bianco, visto attraverso la fessura di un muro, irrimediabilmente prigionieri dei beni meramente materiali, cadete, senza accorgervene, nella trappola della fama e del guadagno.
Alla fine tornate nella dimora dei tre cattivi sentieri, inferno, avidità e animalità, ripetendo il ciclo delle rinascite, sino a quando l’anima non ritrovi la compassione, la misericordia, la bontà”.
Mentre accadeva tutto ciò, mi resi conto che stavo man mano riacquistando i sensi, percepivo emozioni, sentivo dolore, in fondo, oltre la montagna, scorgevo appena la luce bianca, accecante che mi chiamava prepotente a sé, era lì che io volevo andare, con tutte le mie forze.
“No, il tempo non è ancora giunto per te, devi tornare indietro, sei stata onesta e giusta in questa vita, compassionevole con i deboli, hai alleviato le sofferenze di chi ti stava accanto, ti manca solo un’ultima prova, la più difficile da superare. Se vi riuscirai, quando sarà il tuo momento, potrai scegliere la tua prossima vita, sarà felice e serena”.
La montagna ridivenne lo schermo intonso e vi scorsi un vecchio, brutto, orrido, quasi senza fattezze umane, sembrava uno di quei diavoli ritratti da grandi pittori, era disteso su un letto, sporco, era da solo, ansimava, gridava con le ultime forze che gli rimanevano: “figlio mio, dove sei, aiutami, sono tuo padre, ho fatto tutto per te”.
Incuriosita chiesi alle tre vecchie chi fosse quell’essere mostruoso, la risposta mi lasciò annichilita, senza parole: “ quello è tuo padre, lo vedi così brutto perché stai vedendo la sua vera essenza, non vedi la maschera che cela la crudeltà, ti facciamo vedere la fine che farà. Terminerà il suo viaggio da solo, come da sola ha abbandonato la madre; negli ultimi istanti di vita, a lui parranno ore o forse giorni, patirà tutte le sofferenze e il dolore che ha inflitto sia a te, sia a chi ha odiato. Sarà questa la tua vendetta, così ha deciso Nemesi, tu però devi fare una cosa”.
Una di loro mi porse un campanellino d’argento, me lo mise nel pugno di una mano e disse: “ Ogni dolore non è stato ingiusto ma ci è servito per crescere. Ne sarà valsa la pena nel momento in cui ci accorgeremo di questo e ringrazieremo colui o coloro che ci hanno causato sofferenza e che ci hanno dato la possibilità di crescere e comprendere, anziché sentirci in colpa e dare colpe ad altri. Come hai visto, anche chi ci ha ferito soffrirà a sua volta, tu, però, devi andare da tuo padre e ringraziarlo, per merito suo tu ti sei salvata, il suo male ha alimentato in te l’amore, facendo sì che tu meritassi un’altra vita serena e felice”.
“Tutti noi abbiamo una lezione da imparare in questa vita, raccogliamo ciò che seminiamo, ma possiamo sempre selezionare i nostri semi quotidiani e così determinare la raccolta del domani” terminò la terza vecchia.
A un tratto una luce mi accecò, socchiusi gli occhi, sentivo intorno a me voci man mano sempre più nitide: “dai non l’abbiamo persa, ce l’abbiamo fatta, si sta riprendendo, battito cardiaco normale…signora, signora…mi sente?”.
Allora, pensai, è stato tutto un sogno, ora ricordavo ero entrata in sala operatoria per un delicato intervento, sollevata mi ripetei: “è stato un incubo”.
Nel pugno della mano sinistra sentii che stringevo un oggetto, al tatto mi accorsi che era un campanellino e ricordai a cosa servisse: “ quando avrai compiuto la tua ultima prova e vorrai andar via, suona questo campanellino, ti verremo a prendere noi”.







 

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